Tutti gli esperti e studiosi del mondo del lavoro concordano su un fatto: le competenze tecniche, le cosiddette hard skills, sono oggi subordinate alle soft skills, le competenze trasversali, che stanno diventando le abilità primarie in qualunque settore.

Eppure, scendendo nel concreto, nelle aziende c’è ancora poca chiarezza sul ruolo chiave delle soft skills. In sede di colloquio, sono spesso i candidati con un ricco bagaglio di competenze tecniche ad avere la meglio. Molti manager, infatti, continuano a considerare le hard skills come competenze strategiche, irrinunciabili, mentre le attitudini personali sono solo un “di più”.

Le soft skills non hanno niente di “soft”

“Smettiamola di chiamarle soft skills” – così Seth Godin, scrittore ed esperto di marketing, ha intitolato un suo articolo del gennaio 2017. La verità è che il lessico ci trae in inganno: etichettando queste abilità come “soft”, ci illudiamo che siano leggere, superficiali e di poco conto. Le competenze tecniche, invece, le conosciamo come “hard”, e dunque le consideriamo più toste e potenti.

La sostanziale differenza tra soft e hard skills non sta però nel loro valore, o nella complessità di apprendimento, ma nel fatto che le prime sono ambigue e difficilmente misurabili, mentre le seconde possono essere facilmente valutate e classificate.

Nel suo articolo, Godin propone di cambiare terminologia per restituire il giusto valore alle soft skill. “Chiamiamole vere, non soft”: solo così le competenze trasversali verrebbero considerate reali, necessarie e non più opzionali. Le hard skills, invece, dovrebbero essere definite “vocational”, professionali, perché strettamente legate a un certo percorso accademico e lavorativo.

Soft e hard skills si completano a vicenda

È innegabile che certe hard skills siano fondamentali per determinate posizioni lavorative. Nessuna azienda assumerebbe un grafico che non conosca Photoshop, un informatico che non sappia programmare o un Social Media Manager senza Instagram.

Le competenze tecniche rimangono dunque necessarie, ma da sole non sono sufficienti: devono essere accompagnate dalle soft skills. Un grafico bravissimo con Photoshop, ma incapace di collaborare con i colleghi, non è una risorsa preziosa per un’azienda. Come dimostra una ricerca condotta dallo Stanford Research Institute International e dalla Carnegie Melon Foundation, il 75% del successo di un lavoro a lungo termine dipende dalle competenze trasversali delle persone, e solo il 25% dalle abilità tecniche.

Le soft skills si possono imparare

Tendiamo a dare più importanza alle hard skills perché crediamo che siano le uniche che si possono imparare e affinare nel tempo. Sappiamo che seguire un corso di studi in Architettura ci permetterà di progettare una casa, così come un workshop di giornalismo ci guiderà nella scrittura di un reportage.

Con le soft skills, il discorso si complica. Siamo convinti che siano qualità innate: c’è chi nasce con buone capacità oratorie, chi con una mente flessibile, chi predisposto al lavoro di gruppo e chi all’ascolto. Per questo si investe poco nella formazione delle competenze trasversali. Eppure nessuno di noi nasce leader o problem solver: esattamente come le hard skills, anche le soft skills si possono apprendere e migliorare con il giusto training.

La sfida delle organizzazioni del futuro è credere, apprezzare e investire nelle soft skills, sia ricercando risorse con un certo bagaglio di competenze trasversali sia creando programmi formativi ad hoc. Le soft skills necessitano infatti di un percorso di apprendimento continuo, fatto di esercizi pratici, esperienza sul campo, lavoro in squadra e un feedback puntuale. Una sfida che richiede tempo, soldi e fiducia, perché il cambiamento non sarà immediato né immediatamente quantificabile. Ma sono le soft skills a formare figure professionali complete che non solo sappiano “fare”, ma che sappiano anche “essere”: questi sono i lavoratori del futuro.

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